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RICORDI
1940-1945 ricordi "grigio-verdi" di un bambino

Carlo Crippa sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


Carlo Crippa

Carlo Crippa (a sinistra) con il fratellino Giorgio e un amico

Il "grigio-verde" non allude solo alla divisa militare: ma rievoca una precisa "sensazione cromatica" che accompagna il ricordo di quel tempo della mia infanzia.
In casa nostra la guerra era cominciata in anticipo: nel tardo autunno del '39 il papà era partito per l'Albania, sottotenente degli Autieri; evidentemente l'Italia si apprestava a "spezzare le reni alla Grecia", e con un certo anticipo preparava le operazioni logistiche.
Nel '40 si entra in guerra: io ho 5 anni e il ricordo più immediato è quello degli allarmi e delle notti nella cantina attrezzata a rifugio antiaereo.
Più forte l'impressione per quel che si è sentito dire dei bombardamenti che per le esperienze dirette; salvo la memoria del cupo e lontanissimo rumore di fondo mai avvertito prima, accompagnato da una inquietante vibrazione dei vetri, conseguente al cannoneggiamento dal mare di Genova, in pieno giorno.
Poi gli allarmi diventano "routine" quotidiana, anzi notturna.
La visione delle macerie di Milano tra Porta Venezia e le "Varesine", in occasione di non frequenti puntate con la nonna a Varese, sua città natale, dava corpo e sostanza allo spettro dei "bombardamenti", anche se Monza la sentivamo come un obiettivo improbabile: ad incrinare il generale ottimismo, una notte, un grappolo di bombe, sganciate forse per errore e cadute a poche decine di metri da casa nostra, sul convento del "Buon Pastore", avevano fatto alcune vittime tra le suore.
In effetti, solo verso la fine della guerra, un'incursione diurna di bombardieri in picchiata su un obbiettivo che non ricordo bene, forse gli stabilimenti della Singer o "C.G.S.", o la stazione ferroviaria, era stato l'unico episodio che in tutto il periodo bellico aveva avuto per teatro la nostra città, a conferma postuma che forse non era infondato l'ottimismo dei monzesi.
Ogni mattina, il rito della ricerca delle "schegge della controaerea" tra la ghiaia del giardino: fantasia o realtà, avevamo sempre le tasche piene di piccoli pezzi di ferro di origine incerta, trovati o scambiati con i compagni di giochi.
Giochi che erano essenzialmente di impronta "bellica": a Natale, i regali per noi maschi erano immancabilmente armi, zaini, elmetti militari, soldatini, ecc.
L'invettiva di Appelius, "Dio stramaledica gli Inglesi", sono certo di averla sentita da sempre ricorrere nei discorsi comuni dei grandi, e non dalle postume rievocazioni dei documentari storici del dopoguerra, tant'è che, giocando alla guerra, nessuno accettava di fare "gli inglesi" o genericamente "il nemico": si era tutti "truppe dell'asse" contro un nemico immaginario, nascosto dietro l'angolo della casa, sotto i cespugli e comunque invisibile.
Eccezionalmente, i ragazzi dei cortili vicini pagavano il prezzo dell'ammissione al gioco facendo la parte "dei nemici".
Si vinceva sempre e si cantavano le "canzoni del tempo di guerra" che dopo il "bollettino di guerra" e il "giornale-radio" venivano trasmesse due volte al giorno.
Il "giornale-radio" era seguito da tutte le famiglie con grande attenzione e trepidazione: tutti avevano qualcuno in armi".
La vittoria era sempre "immancabile", ma si restava sempre più perplessi nell'apprendere che "dopo strenua ed eroica resistenza, avendo inferto pesanti perdite al nemico, le nostre truppe ripiegavano su posizioni prestabilite".
Si, "eroi ,ma ripiegavano! E "l'immancabile vittoria" quando sarebbe finalmente arrivata? "Eroi": con il volto asciutto e sottile, come apparivano sui rotocalchi, "Signal" soprattutto, nell'edizione in lingua italiana, con il volto sottile e non tondo come il mio: come avrei potuto passare credibilmente per un "eroe"?.
Mio fratello invece, minore di me, aveva un bel faccino sottile ed era anche biondo, proprio "ariano" avrei detto se avessi conosciuto l'espressione, come i bimbi degli alleati tedeschi: per fortuna mio fratello faceva "Giorgio" all'anagrafe, e allora era "…Re Giorgetto d'Inghilterra che ha paura della guerra, chiede aiuto e protezione al ministro Ciorcillone "…e così si ristabiliva l'equilibrio gerarchico in famiglia tra noi "figli della lupa": in effetti ero io ad indossarne "di diritto" la divisa, mentre "Giorgetto" era un "volontario", ma abusivo, perché troppo giovane.
Natale di guerra del '41: il morale è ancora alto e non si respirano ancora dubbi.
Il papà è ancora in Albania e forse parte la prima "letterina" "compitata" dal sottoscritto in prima elementare per il babbo in zona d'operazioni.
Un po' più avanti, e con pacco postale assieme a calze di lana e foto di famiglia, si spedisce il "sussidiario" della prima elementare perché l'attendente di papà, tale
"Perilli", marchigiano, ma famigliarmente detto "Birillo", possa imparare a leggere e scrivere.
A metà del '41 il papà ritorna congedato con una grave ulcera duodenale, che segnerà un decennio della sua vita; solo un intervento operatorio del Prof. Ciminata nel '54 lo riporterà ad un'esistenza normale.
Da bambini viviamo la guerra come gioco, che si sposta da un fronte all'altro; i più gettonati, la campagna d'Africa e le battaglia navali: "Giarabub", "Bengasi", "Tobruk", "Capo Matapan", "Punta Stilo" sono nomi e luoghi a noi noti, che ricerchiamo sulle carte geografiche e segnaliamo con bandierine.
Altrettanto popolari sono i generali "Rommei", "Kesselring", "Messe", ecc. nei quali personaggi ci si cala, e si disputa per interpretarne il ruolo.
Di Mussolini non si parla: ce ne parlano gli insegnanti a scuola, ma, tranne nelle famiglie dichiaratamente "fasciste", è una figura che non fa molta presa sull'immaginario dei miei coetanei, almeno per quanto ricordo: forse qualcosa di esagerato, di "sopra le righe" della sua figura, ci portava inavvertitamente a prendere le distanze; faceva più colpo la personalità del "Fuhrer", caso mai: del resto non se ne conoscevano ancora le efferatezze.
Poi, col '43, vengono i tempi del caos e dei ricordi confusi: strano, perché ho qualche anno in più e dovrei avere memoria più chiara degli eventi.
Eventi incredibili: il Duce imprigionato, il Duce liberato, gli alleati in Sicilia, poi sulla penisola, poi a Cassino, a due passi da Roma: alleati o nemici?
8 settembre: l'armistizio, la guerra è finita, breve giubilo e poi la doccia fredda: la guerra continua! Con chi? Contro chi? Da che parte? Quelli della "Muti" e della "XMAS" eroi o violenti disperati? E i partigiani, briganti o patrioti?
La confusione e il senso del "tutto si sfascia" sono avvertiti anche da noi bambini: nel '43 ho 8 anni.
Non si gioca più "alla guerra", o lo si fa sempre meno, forse anche perché i ruoli sono confusi ed equivoci: l'espressione "fascista" comincia a girare tra la gente come allusione spregiativa e, benché noi ancora piccoli, non si tarda ad avvertirlo.
Sono gli anni degli stenti e della "borsa nera": la nonna porta me e mio fratello più piccolo con la carrozzina dal doppio fondo che era servita a noi neonati, e poi alla sorellina nata nel '43 in pieno allarme aereo, ad acquistare "dalla fascista", una signora dedita alla "borsa nera" e protetta evidentemente da una ostentata manifestazione di appartenenza politica, scatolette di burro dal sapore rancido, farina, pasta, zucchero, ecc.
I nostri giochi diventano più "neutri" e tendono a coinvolgere anche il mondo femminile, rappresentato dall'unica cugina.
Coi primi bombardamenti "sfollavamo", solo per la notte, nella vicina Albiate, dove dormivamo in un sottotetto con le taniche di benzina stipate sotto le reti dei letti di fortuna, taniche ottenute alla "borsa nera" dal tessitore, cliente del nonno, che ci ospitava, e maldestramente occultate al controllo dei "militi della protezione antiaerea".
Col ripetersi degli allarmi anche di giorno, ci eravamo rifugiati in Brianza, ospiti a Carugo dai parenti di un attendente di papà, falegnami e contadini; pur iscritto alla seconda elementare alla scuola "Rosa Maltoni" di Monza, senza troppe formalità mi era stato concesso di frequentare anche a Carugo, munito del "sussidiario per la scuola rurale"; mio fratello, benché piccolo, era piuttosto discolo, tanto che era riuscito a coinvolgere in una rovinosa caduta dalla bicicletta l'agente del dazio in servizio tra i tre o quattro comuni limitrofi: perché potessi tenere d'occhio il "Gianburrasca" di famiglia, si era ottenuto che sedesse in banco con me, benché non ancora in età scolare: una distrazione in più per me, che, già abbastanza svagato, nelle mattine di quelle lunghe giornate senza controlli, di assoluta libertà e di poco impegno scolastico, tiravo a campare e vivevo di rendita e di credito, essendo il figlio della professoressa di città: da allora mi sono trascinato appresso per anni una vistosa difficoltà nell'eseguire divisioni ed equivalenze, il cui apprendimento avevo sistematicamente differito in virtù del mio pendolarismo scolastico tra Monza e Brianza.
A Carugo il tempo libero extra scolastico lo passavamo giocando in cortile, nei campi e sul "ronco" coi ragazzi del paese, "monelli da non frequentare", secondo il severo giudizio di nonna e madre.
Lo "sfollamento", iniziato coi bombardamenti, si prolunga poi in vacanze interminabili fuori città, nelle valli vicine: dal piazzale di Carenno, alle falde del Resegone, avevamo assistito costernati all'inferno di fuoco che si alzava su Milano, durante i bombardamenti nelle notti d'agosto del '40 o del '41.
In Valsassina eravamo rimasti, dopo l'8 settembre, tagliati fuori dal mondo, senza notizie degli uomini di casa e vivendo del credito che ci facevano di buon grado i
valligiani in virtù della nostra condizione di "sfollati": uno "status" ormai diffusamente e tacitamente riconosciuto.
Gli anni successivi, anche lì in Valle, provammo la sensazione dell'insicurezza e del clima violento che ormai aveva avvelenato gli animi nel nostro Paese: un inserviente delle autolinee, personaggio per noi bambini simpatico e bonaccione, che ci faceva ridere per il tentativo di italianizzare la sua parlata dialettale "Valicce! Valicce!" quando procedeva al carico dei bagagli sul tetto dell'autocorriera, era stato "epurato" perché "fascista": in sostanza, finito con una raffica di "mitraglietta" contro un muro; la cosa ci aveva molto colpito, perché non riuscivamo ad immaginarlo così "pericoloso".
Eravamo a Rovetta in Valseriana nel '45 quando la radio diffuse la terrificante notizia degli apocalittici bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki: l'audizione era stata confusa e gracchiante e la mamma ci spiegò che l'ecatombe era stata causata dall'esplosione di bombe "atoniche"; la mamma, esperta in belle lettere ma assolutamente refrattaria ad ogni cognizione attinente le scienze esatte, capiva benissimo che una cosa "atonica" non faceva rumore, mentre di una cosa "atomica" sapeva solo che riguardava un'entità immaginabilmente piccola e quindi trascurabile: perciò, dalla sua spiegazione, certamente legata ai miti circolanti "sull'arma segreta" che avrebbe ribaltato le sorti della guerra, noi bambini rimanemmo letteralmente sgomenti e costernati all'idea di poter restare istantaneamente annichiliti da qualcosa che neppure faceva rumore; anche il silenzio dunque era diventato un pericolo mortale: meglio le sirene dell'allarme aereo e i boati delle esplosioni: almeno c'era un onesto preavviso che si sarebbe morti!
La poca simpatia nutrita da papà per il "regime" era cosa nota: dell'onorevole Stucchi, dell'avvocato Pennati e di Gambacorti Passerini era stato compagno di gioventù, di studi e di goliardia.
Il papà, nato non per sua volontà il 27 ottobre, per propria decisione un po' spavalda, un po' incosciente, perché economicamente non navigava in ottime acque, aveva portato la mamma all'altare della chiesa di San Biagio il 29 ottobre: snobbando la "data fatale" del 28 aveva rinunciato al lauto assegno che il "regime" elargiva alle coppie che convolavano nel giorno che aveva dato inizio al conteggio "dell'era fascista"; in seguito aveva servito la patria nel "regio esercito" in Albania, come già detto, e aveva lasciato cadere ogni pressante sollecitazione a prestare giuramento alla repubblica di Salò.
Quando nell'aprile del '45 gli eventi precipitano, per questi trascorsi non precisamente "allineati" il papà era stato richiamato in servizio come tenente degli Autieri dal comando partigiano di Monza e gli era stato affidato un incarico di qualche responsabilità presso il "parco macchine militare" nell'area dell'autodromo.
Per noi, nei giorni precedenti e immediatamente successivi al 25 aprile, la consegna tassativa era stata di non uscire per strada e di giocare dietro casa, non visibili dalla via: in queste circostanze ricordo l'intervento decisivo del babbo, consapevole della responsabilità di portare la divisa di ufficiale dell'esercito, per dissuadere un gruppetto di facinorosi armati di mitra, che pretendevano di "prelevare" un nostro coinquilino, persona riservata e schiva ma di nota e mai rinnegata fede politica, "legionario" nelle brigate antirepubblicane della guerra civile di Spagna.
Il babbo forse non era un "eroe" di professione, ma in quell'occasione assunse un ruolo da "uomo", nel significato più nobile del termine, decisamente al di sopra dell'opportunismo e della mediocrità corrente, che aveva sfornato anche tanti "eroi dell'ultima ora".
Comunque, dalla grandissima confusione dei giorni dell'aprile del '45, avvertivamo anche noi ragazzini emergere delle certezze nuove, evidentemente nell'aria, nei discorsi e negli atteggiamenti degli adulti, molto diverse e improntate a viva speranza di tempi ed eventi migliori, contrariamente al cupo sbigottimento che aveva preso il sopravvento in tutti dopo l'8 settembre del '43.

Carlo Crippa


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 19 aprile 2003